
Di Enrico Buongiovanni
Era un pomeriggio caldo e polveroso, uno di quei giorni in cui il sole sembra avvolgere ogni cosa in una luce densa, quasi irreale.
Mi trovavo in un centro per bambini rimasti orfani, in un paese segnato da anni di conflitto.
L'aria era pesante, carica di un silenzio che parlava più di mille parole.
Eppure, appena varcata la soglia, fui colpito da qualcosa di inaspettato: risate.
Non le avevo immaginato in un posto come quello.
Erano risate cristalline, contagiose, e provenivano da un piccolo gruppo di bambini che giocavano con un vecchio pallone sgonfio.
Fu lì che lo vidi.
Un bambino, avrà avuto otto o nove anni, con grandi occhi scuri che sembravano contenere l'intero universo.
Era magro, con i vestiti troppo grandi per lui, eppure aveva un'energia che sembrava riempire ogni angolo della stanza.
Quando i nostri sguardi si incrociarono, mi fece un cenno con la mano, invitandomi ad avvicinarmi.
Mi sedetti accanto a lui su una panca di legno traballante.
Non parlava molto, almeno non all'inizio, ma non serviva.
Bastava il modo in cui mi guardava, con quella curiosità disarmante che solo i bambini sanno avere.
Poi, dopo qualche minuto di silenzio, mi chiese:
"Perché sei qui?"
Non era una domanda accusatoria, ma sincera.
Gli spiegai che volevo capire, conoscere, e forse, nel mio piccolo, aiutare.
Lui annuì, come se la mia risposta fosse quella che si aspettava.
Poi cominciò a raccontarmi di sé.
Mi disse che aveva perso tutto: la casa, i genitori, i fratelli.
Raccontava con una voce ferma, quasi adulta, come se avesse già imparato a convivere con un dolore che avrebbe spezzato chiunque. Eppure, mentre parlava, non c'era rabbia nei suoi occhi.
C'era qualcosa di diverso, qualcosa che non riuscivo a definire.
Gli chiesi cosa lo rende felice, nonostante tutto.
Lui ci pensò un attimo, poi rispose:
"Le cose belle ci sono ancora, anche se piccole. Il sole che esce dopo la pioggia. Gli alberi che non si arrendono e continuano a crescere. E poi, quando qualcuno mi ascolta, come stai
facendo tu ora."
Quelle parole mi colpirono come un pugno nello stomaco.
Ero lì per offrirgli qualcosa, e invece era lui a donarmi una lezione che non avrei mai dimenticato.
La sua capacità di vedere la bellezza in mezzo alla distruzione, di aggrapparsi ai piccoli miracoli quotidiani, mi fece sentire piccolo, ma anche grato.
Alla fine, mi sorrise, uno di quei sorrisi che illuminano tutto.
Non era un sorriso forzato, ma autentico, come se volesse dirmi che, nonostante tutto, c'era ancora speranza.
Prima di andar via, mi regalò una piccola pietra che aveva raccolto nel cortile del centro.
"Tienila," mi disse, "così ti ricorderai di me e del fatto che anche le cose semplici possono essere importanti."
Tornai a casa quella sera con la sensazione di avere ricevuto molto più di quanto avevo dato.
Quello scambio, quella pietra, quel sorriso: erano un promemoria potente che la forza non è assenza di dolore, ma la capacità di trovare un motivo per sorridere, anche quando tutto sembra perduto.
Il suo sorriso mi ha insegnato che la felicità non è negare la realtà, ma scegliere di cercare la luce, anche nel buio più profondo.
E che, a volte, i veri maestri della vita sono quelli che hanno perso tutto, ma continuare a credere nella bellezza di un nuovo domani.