
Di Enrico Buongiovanni
Ci sono incontri che non dimentichi. Non perché siano fragorosi o spettacolari, ma perché avvengono in punta di piedi, eppure ti lasciano un’impronta nell’anima.
Eliza è arrivata al mio corso di meditazione con lo sguardo di chi ha attraversato molte tempeste senza mai fermarsi davvero a guardare il cielo. Una ragazza inglese, ventotto anni, occhi verdi pieni di domande e una voce che sembrava trattenere qualcosa da troppo tempo.
L’ho incontrata durante una delle lezioni online, e già nel primo cerchio di condivisione, si percepiva il suo bisogno di respirare più a fondo. Di liberarsi.
“Cosa ti ha portata qui, Eliza?”, le ho chiesto.
Ha esitato, come se cercasse le parole tra le macerie di un silenzio antico. Poi ha detto:
“Il bisogno di lasciar andare. Non solo una persona, ma tutte le versioni di me che hanno cercato di trattenerla.”
Quella frase è rimasta sospesa nell’aria come una piuma che non trova ancora il momento giusto per posarsi. E mentre parlava, era come vedere una diga cedere lentamente alla forza di un fiume che aveva atteso troppo.
Eliza aveva vissuto una relazione lunga cinque anni, che si era trasformata poco a poco in una zattera marcia: galleggiava appena, eppure lei continuava a starci sopra, credendo di doverla aggiustare. “Mi dicevo che mollare era un fallimento. Non capivo che trattenere qualcosa che ti toglie il respiro è la vera sconfitta.”
Durante il corso, ci siamo esercitati su una visualizzazione in cui chiedevo di immaginare una stanza piena di valigie: ognuna rappresentava un pensiero non detto, una colpa, una paura.
Eliza ha chiuso gli occhi, e quando li ha riaperti aveva le guance rigate.
“Le ho viste. Tante. Ma la più pesante era una valigia che portava il suo nome. E dentro c’erano tutte le volte in cui ho detto ‘va tutto bene’ quando non lo era.”
Abbiamo lavorato sul respiro. Semplicemente. Come si allena un cuore stanco a battere di nuovo con fiducia.
La guidavo a ogni espirazione: “Immagina che ad ogni soffio tu stia srotolando una corda che ti legava a qualcosa… o a qualcuno.”
A un certo punto, durante la terza sessione, ha mormorato a bassa voce: “Non pensavo facesse così male lasciare andare.”
E io le ho risposto che lasciar andare non è abbandonare. È come restituire un uccello al cielo. Non è perdita, è verità.
Una delle immagini che l’ha aiutata di più è stata quella dell’albero in autunno. “Gli alberi non lottano per trattenere le foglie. Le lasciano andare quando è il momento. E non per debolezza, ma per ciclicità. Per saggezza. Per rinascita.”
Eliza ha iniziato ad accettare il silenzio. Non quello vuoto, ma quello pieno. Ha smesso di chiedersi se lui pensasse ancora a lei, e ha iniziato a chiedersi: “Cosa pensa di me la parte di me che ho ignorato per anni?”
Alla fine del corso, ha scritto una lettera che non avrebbe mai spedito. Una lettera a sé stessa.
Ne cito un passaggio, con il suo permesso:
“Ho passato troppo tempo a tenere tra le mani sabbia e pretendere che diventasse roccia. Adesso apro le dita, e la lascio scivolare. Non perché non contasse, ma perché non è più mia.”
Eliza oggi vive a Dublino, ha iniziato un percorso per diventare counselor, e ogni tanto mi scrive, raccontandomi dei suoi progressi. Ma soprattutto di come ha imparato a dire “basta” senza sensi di colpa, e “grazie” senza lacrime.
Questa è la sua storia.
Una storia che, forse, appartiene un po’ anche a chi sta leggendo e tiene ancora strette valigie che non portano più da nessuna parte.
Se sei anche tu in bilico tra il trattenere e il lasciar andare, ricordati di Eliza.
E di quell’albero che, in silenzio, lascia andare la sua foglia nel vento.
Non per perdere qualcosa, ma per fiorire ancora.