
Di Enrico Buongiovanni
Il sole del Darfur scendeva pesante sulla terra arida, tingendo di rosso la sabbia e le capanne di fango sparse come impronte lasciate da un gigante distratto. Amina camminava a piedi nudi, il capo coperto da un velo impolverato, con in braccio suo figlio che dormiva, esausto. Aveva 27 anni, ma gli occhi raccontavano decenni di dolore.
Ogni ruga sul volto sembrava scavata dalla guerra.
Era scappata tre volte: la prima da un villaggio bruciato dai ribelli, la seconda da un campo profughi dove la fame divorava i bambini più in fretta della guerra, la terza da un marito che, spezzato dentro, era diventato carnefice.
Ora viveva in una baracca ai margini di un altro campo, nel cuore del nulla, dove l’aria sapeva di sabbia e silenzio.
Amina parlava poco, non per timidezza, ma perché credeva che le parole fossero sacre.
“Si usano solo quando curano,” diceva, con una voce che sembrava vento stanco. Ogni giorno, dopo aver raccolto l’acqua da una cisterna distante tre chilometri, si sedeva all’ombra di un albero e cuciva bambole fatte di stracci.
Le regalava ai bambini del campo. Bambole senza volto.
Una volta, un volontario italiano le chiese: “Perché non disegni occhi, bocca?”
Lei rispose: “Così ogni bambino ci vede quello che desidera.
Una madre, un amico, sé stesso quando era felice.”
Poi aggiunse: “Quando non hai nulla, ti resta solo l’immaginazione e la mia cucitura è un ponte verso un ricordo più gentile.”
Un giorno, un piccolo gruppo di giornalisti venne nel campo.
Amina, con umiltà e fermezza, spiegò il valore delle sue bambole, disse che ogni punto era una preghiera.
Uno di quei giornalisti ne portò una in Europa, la mise in mostra con la scritta: “Fatta da chi ha perso tutto, ma cuce ancora il mondo.”
Qualche mese dopo, arrivarono pacchi con aghi, fili colorati, stoffe.
Donne da altri campi volevano imparare da Amina.
Lei non parlava di leadership, non cercava di diventare un simbolo.
Ma lo era già, perché non aveva chiesto nulla e donava tutto.
Nel tempo, fondò un piccolo laboratorio, aiutata da una ONG, dove insegnava ad altre donne a cucire non solo bambole, ma dignità.
Nessuno la chiamò mai attivista, ma ogni sera, quando accendeva il fuoco con mani stanche, i bambini le si sedevano accanto.
Non per giocare, ma per ascoltare.
Non parlava di guerra, ma raccontava fiabe.
La più amata era quella di una principessa che, invece di una corona, aveva un ago e un filo, e aggiustava i cuori cucendo sogni.
Amina non lasciò mai il campo, non salì mai su un aereo, non tenne conferenze. Ma ovunque nel mondo ci sono ora bambole senza volto. In asili, ospedali, case.
Ogni volta che un bambino ne stringe una, Amina è lì, in silenzio, a ricordare che anche la sabbia può fiorire, se ci semini amore.