· 

Kenji - Il suono del silenzio

Di Enrico Buongiovanni


Il tempio sorgeva ai piedi delle montagne, immerso tra pini antichi che oscillavano al ritmo del vento. I tetti ricurvi riflettevano la luce del mattino, e l’aria era così limpida che sembrava cantare, anche se non emetteva alcun suono.

Kenji saliva ogni giorno la lunga scalinata di pietra che portava al portone principale. 

Non contava i gradini, li lasciava scorrere sotto i piedi nudi come si lascia scorrere il tempo tra le mani. 

Era alto, con il volto segnato da linee sottili e occhi profondi, ma il suo sguardo non era rivolto al mondo esterno: cercava altrove, in spazi che pochi avevano il coraggio di esplorare.

Da anni, Kenji viveva nel silenzio.

Non per scelta, almeno all’inizio.

Un incidente in gioventù lo aveva privato della maggior parte dell’udito. 

All’inizio, la mancanza di suoni fu una condanna: il frastuono della città, che una volta malediceva, gli mancava; il canto delle cicale d’estate, il rumore della pioggia sui tetti, persino il brusio della folla… tutto era diventato un ricordo che faceva male.

Per mesi si chiuse in se stesso. 

Non voleva parlare, non voleva incontrare nessuno.

Ma un giorno, salendo per caso quella scalinata verso il tempio, si accorse che il silenzio che tanto odiava poteva avere un volto diverso.

Lì, tra il suono del vento che non sentiva ma vedeva muovere i rami, tra i passi dei monaci che scivolavano come ombre, scoprì che il silenzio non era assenza. 

Era presenza.

Un suono nascosto, che non aveva bisogno di orecchie, ma di cuore.

Da allora, ogni giorno, tornava. 

Si sedeva nel giardino roccioso del tempio e chiudeva gli occhi. 

Avvertiva la vibrazione della terra sotto di lui, percepiva il ritmo del suo stesso respiro, e scopriva che il silenzio aveva infinite sfumature.

Il silenzio della notte era diverso da quello del mattino.

Il silenzio della pioggia era diverso da quello del vento.

Ogni silenzio aveva una sua musica segreta.

I bambini del villaggio cominciarono a seguirlo, incuriositi da quell’uomo che non parlava molto ma che sapeva ascoltare in un modo diverso.

— Maestro Kenji, cosa senti quando tutto tace? — gli chiese un giorno una bambina, con un ventaglio di carta in mano.

Kenji la guardò e sorrise. 

Prese un sassolino, lo lasciò cadere nell’acqua del laghetto. 

Le onde concentriche si allargarono lentamente.

— Questo — rispose. — Non senti il suono, ma lo vedi. Non ascolti con le orecchie, ma con gli occhi.

La voce si sparse, e sempre più persone salirono al tempio per incontrarlo. 

Alcuni cercavano conforto, altri solo curiosità. 

Kenji non prometteva soluzioni né miracoli. 

Si limitava a sedersi accanto a loro, a condividere un silenzio che, minuto dopo minuto, smetteva di pesare e diventava leggerezza.

Una volta, un uomo gli disse:

— Vivo in città, e ogni giorno il rumore mi divora. Come posso trovare la pace?


Kenji gli prese la mano e lo portò nel giardino.

— Guarda quella foglia che cade. — fece un gesto semplice. — Il silenzio non è assenza di rumore. È presenza di sé.


Col tempo, Kenji divenne per tutti “l’uomo che sapeva ascoltare senza sentire”. 

Ma lui non amava i titoli né i riconoscimenti. 

Continuava a vivere come sempre: curava i giardini, meditava, insegnava ai bambini a scoprire il valore dell’attesa.

Quando morì, il tempio intero rimase immerso in un silenzio diverso. 

Non era dolore, non era vuoto. 

Era come se ogni albero, ogni pietra, ogni fiore avesse conservato un frammento della sua presenza.

Ancora oggi, chi si siede sulla panca accanto al laghetto giura di percepire un suono invisibile: una melodia fatta di vento, respiro e quiete.

Sul muro del tempio, inciso su una tavoletta di legno, c’è scritto:


“Non temere il silenzio. È lì che la tua anima impara a parlare.”